LE SOSTANZE CANCEROGENE NEGLI AMBIENTI DI LAVORO

MECCANISMO DI FORMAZIONE TUMORALE; TEORIE DELLA COMUNITA’ SCIENTIFICA SULLA FORMAZIONE DI CELLULE TUMORALI

Un’attenzione particolare merita una classe di sostanze appartenenti ai cosiddetti agenti cancerogeni e mutageni (ACM). L’interesse per gli ACM è cresciuto negli anni al crescere del numero di tumori nella popolazione generale. Recenti indagini di vari autori e della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità indicano che circa il 70/90% dei tumori umani è determinato da fattori ambientali.

I tumori che si sviluppano in un soggetto in sede lavorativa sono detti tumori professionali. Non sempre esiste una adeguata caratterizzazione di un cancerogeno come agente eziologico. Le difficoltà in sede di diagnosi eziologica più rilevanti possono essere le seguenti:

  • Dal primo momento che un soggetto si espone al cancerogeno sul luogo del lavoro alla comparsa del tumore possono trascorrere anni, a volte decenni (tempo di latenza), per cui è molto difficile ricostruire con certezza il tipo ed il grado di esposizione e quindi la relazione causa-effetto tra l’esposizione professionale ed il cancro;
  • Va sempre considerata la possibilità di altre esposizioni ad agenti cancerogeni, nell’ambiente di vita, al di là di quelle professionali, ed il rispettivo ruolo nel determinare un tumore;
  • I tumori professionali non sono distinguibili dai tumori che spontaneamente si riscontrano nella popolazione generale, salvo casi particolari ben riconosciuti ma molto rari.

La ricerca oncologica sperimentale in questi ultimi tempi si è andata sempre più sviluppando nel campo della biologia molecolare per poter giungere alla comprensione dei processi molecolari che stanno alla base del fenomeno relativo alla trasformazione di una cellula normale in una maligna con la possibilità di dare origine ad un cancro. Grazie a queste ricerche si è potuto verificare che il bersaglio cellulare principale delle sostanze cancerogene è rappresentato dalle macromolecole ed in particolare dal DNA, in cui è memorizzata l’informazione genica necessaria al funzionamento delle cellule e alla loro struttura. Inoltre si è pervenuti alla conclusione che quasi tutti gli agenti cancerogeni sono in grado di provocare modificazioni stabili del DNA.

Gli agenti cancerogeni possono dunque essere dei potenziali agenti mutageni avendo la capacità di determinare alterazioni permanenti nel materiale genetico degli organismi viventi.

La popolazione umana non è quindi esposta solamente al rischio di una maggiore incidenza di alterazioni a livello somatico (cancro), ma anche ad un sensibile rischio di incremento delle malattie di natura genetica per le future generazioni. Le differenze tra agente cancerogeno e mutageno, così come tra il processo di mutagenesi e di cancerogenesi, sono piuttosto sottili. In particolare il termine mutagenesi si riferisce all’induzione di cambiamenti permanenti trasmissibili nella struttura del materiale genetico di cellule o organismi, a livello somatico o germinale. Il termine genotossicità, invece, è un termine più ampio con cui si comprendono, oltre alle mutazioni, effetti diversi sul materiale genetico, quali ad esempio: danni al DNA come rotture a singola o doppia elica, addotti al DNA, sintesi non programmata del DNA, scambi tra cromatidi fratelli, ricombinazione mitotica.

Gli agenti mutageni possono essere germinali o somatici, i primi sono coinvolti nella eziologia di difetti generici ereditabili mentre ai secondi è attribuibile un possibile coinvolgimento nella trasformazione neoplastica. Quando un cancerogeno chimico viene a contatto con l’organismo ed è assorbito può accadere che sfugga completamente alle difese ed ai meccanismi di controllo, arrivando direttamente al proprio bersaglio: le cellule che vengono a contatto con un cancerogeno subiscono delle alterazioni e divengono trasformate, per cui dividendosi ripetutamente portano alla formazione di una massa tumorale, che, a distanza di tempo dal primo contatto, diventa visibile all’attenzione del soggetto e del medico.

L’organismo può difendersi in vari modi:

1) eliminando subito la sostanza non appena questa vi penetra;

2) modificandone la struttura in modo da inattivarla, eliminandola poi per le normali vie di escrezione;

3) riparando il danno che il cancerogeno ha causato nella cellula prima di trasformarla;

4) bloccando la crescita delle cellule già trasformate e uccidendole con appositi dispositivi cellulari.

Tuttavia i meccanismi di difesa non sono attivi ad oltranza, ed inoltre possono essere influenzati dall’azione di altre sostanze chimiche introdotte nell’organismo con l’alimentazione o con i farmaci, per cui se non c’è controllo, dalla prima cellula trasformata si può arrivare al tumore vero e proprio.

Più in particolare si possono dividere gli agenti cancerogeni genotossici iniziatori in due grandi categorie: i cancerogeni diretti, rappresentati da quelle molecole che per la loro struttura chimica posseggono caratteristiche di reattività verso il DNA, e i precancerogeni, cioè tutte quelle molecole che possono esplicare le loro interazioni col DNA solo dopo aver subito delle trasformazioni chimiche, il più delle volte realizzate da meccanismi metabolici normalmente presenti nelle cellule.

Diverse possono essere le modalità di interazione cancerogeno-DNA.

Per esempio il DNA alterato può andare incontro a processi di riparazione del danno indotto dal cancerogeno. Questi processi consistono nella azione coordinata di vari enzimi che tendono ad eliminare il segmento di DNA danneggiato e a ripristinare la situazione chimica iniziale. Un tipo particolare di riparazione, la riparazione per excisione, è ormai riconosciuto operare in tutti gli organismi viventi, uomo compreso. Quando però questo sistema non può più operare sia perché saturato da un grande numero di lesioni indotte, sia perché manca per motivi genetici, vengono impiegati altri sistemi di riparazione, che possono agire con minor precisione introducendo un gran numero di mutazioni. I processi evolutivi degli organismi hanno mantenuto dei meccanismi di riparazione eccezionali con lo scopo di tenere in vita le cellule ad ogni costo, anche se questo costo è rappresentato da un nocivo accumulo di nuove mutazioni.

È ormai chiara la correlazione tra induzione di tumori e mancata o diminuita capacità riparativa dei danni provocati sul DNA da parte degli agenti cancerogeni. Ne deriva anche che ogni agente capace di stimolare una riparazione del DNA (sintesi di DNA non programmata) è da considerarsi come potenzialmente oncogeno.

Infatti la molecola dell’agente cancerogeno o le alterazioni da essa prodotte possono persistere sul DNA e stimolare riparazioni non efficienti. Le mutazioni che ne conseguono sono ritenute una delle cause principali della trasformazione di una cellula normale in una tumorale. Se le alterazioni del DNA non vengono comunque riparate possono determinare lesioni strutturali a carico dei cromosomi stessi. Alcuni cancerogeni possono, infine, avere una specifica affinità per le fibre del fuso mitotico e determinare anomalie nella distribuzione dei cromosomi nelle cellule figlie durante la divisione cellulare (poliploidie e aneuploidie). Le sostanze cancerogene, dopo la conversione metabolica, non sempre necessaria, producono alterazioni nella struttura del DNA alle quali possono seguire processi diversi che possono dar luogo a diversi tipi di mutazioni: geniche, cromosomiche e genomiche e, dal punto di vista somatico, a una cellula cancerosa. Il successivo sviluppo di un tumore è però condizionato da una serie di altri fattori quali stimoli ormonali, insufficiente sorveglianza immunitaria, età, stati infiammatori, ecc.

Il meccanismo di cancerogenesi più comunemente accettato è il modello multistage attraverso il quale si induce, con lunga latenza (anche i 2/3 di aspettativa di vita) e una successione di modificazioni a bassa probabilità di realizzazione, una neoplasia maligna. Secondo tale modello la genesi della neoplasia partirebbe dalla mutazione genetica della cellula (iniziazione), che subisce la trasformazione in cellula tumorale.

La cellula “iniziata” riproducendosi dà origine ad una lesione preneoplastica (promozione), che a sua volta può evolvere in un tumore maligno (conversione). In seguito, attraverso la cosiddetta fase di progressione, il tumore si sviluppa ulteriormente diventando clinicamente evidente e producendo metastasi a distanza. Più in dettaglio il processo cancerogenetico si articola nelle seguenti fasi:

1) Iniziazione: in questa fase agisce esclusivamente l’agente genotossico, che deve confrontarsi tuttavia con la capacità di difesa e di riparazione delle cellula colpita, che come abbiamo visto in molti casi è in grado di limitare gli effetti della mutazione o di annullarli in virtù della attivazione di particolari enzimi. L’agente genotossico interagendo con il DNA delle cellule somatiche bersaglio può provocare danni irreversibili: diversi tipi di mutazioni geniche ereditabili e anomalie cromosomiche, in grado di dare origine al processo di cancerogenesi. La fase d’iniziazione è rapida, irreversibile e stocastica (probabilistica).

2) Promozione: corrisponde alla fase di proliferazione cellulare che, come già detto, contribuisce a fissare la mutazione nel genoma cellulare. Risultano coinvolti sia agenti genotossici che epigenetici; la fase di promozione, che nei primi stadi risulta reversibile, richiede un periodo di tempo più lungo dell’iniziazione e coinvolge meccanismi anche epigenetici, attraverso i quali gli agenti cancerogeni che non reagiscono direttamente con il DNA cellulare inducono lo sviluppo di una lesione preneoplastica a partire da cellule iniziate. La fase di promozione è lenta, parzialmente reversibile e necessita inoltre di esposizioni ripetute oltre una certa soglia di concentrazione e di notevoli stimoli proliferativi che determinano espansione clonale ma non di danni al DNA (effetti mutageni o genotossico).

3) Progressione: in questa fase le cellule selezionate in senso neoplastico mostrano la capacità di invadere i tessuti vicini e di metastatizzare in quelli più distanti. La fase di progressione porta all’espansione del clone di cellule cosiddette “iniziate” e quindi alla comparsa della malattia neoplastica. Nella fase di progressione le lesioni iperplastiche e preneoplastiche diventano neoplastiche, dapprima con caratteristiche di benignità, poi invasive e metastatiche con le caratteristiche della malignità.

Per gli agenti cancerogeni genotossici la comunità scientifica non ammette l’esistenza di una dose al di sotto della quale si può essere certi che un’esposizione anche minima non provochi un danno al DNA. Per gli altri agenti cancerogeni epigenetici o promotori (es. benzo(a)pirene) viene invece accettata in via teorica l’esistenza di un valore limite, perché, come riportato in precedenza, la fase di promozione necessita di esposizioni ripetute oltre una certa soglia di concentrazione. A questo punto un problema scientifico ancora aperto è quello di accettare o no l’esistenza di un valore soglia (NOAEL, No Observed Adverse Effect Level) e di conseguenza definire dei valori limite d’esposizione per avere la possibilità di valutare concretamente il rischio cancerogeno. Il NOAEL, che rappresenta la stima di quella dose a cui i lavoratori possono rimanere esposti per tutta la vita lavorativa (40 anni) senza che si osservino effetti avversi sulla salute degli esposti è in realtà ottenuta da studi su modelli animali esposti a dosi crescenti, da studi sul meccanismo di azione del tossico e da studi epidemiologici adeguati.

In un’ottica di prevenzione primaria del rischio cancerogeno è chiaramente più opportuno non distinguere gli agenti cancerogeni in epigenetici o in genotossici sulla base dell’ipotetico meccanismo d’azione, ma considerare che la relazione tra i livelli di esposizione e la probabilità di sviluppo di tumori sia di tipo lineare e che il rischio zero vi sia solo in assenza di esposizione.

La metodologia di calcolo del livello del rischio ha la finalità di indicare che se il livello d’esposizione complessivo (dovuto a tutte le sostanze cancerogene e mutagene utilizzate dal lavoratore stesso) è inferiore alla soglia numerica individuata nel valore unitario, si può considerare che gli interventi di prevenzione e protezione messi in atto sono sufficienti a contenere gli elementi di rischio al punto tale da ritenere lo stesso lavoratore solo “potenzialmente esposto per cause accidentali”, e concludere che, per il lavoratore in questione, non si evidenziano rischi specifici per la salute.

Come tutti i modelli anche quello suggerito presenta alcune criticità perché il comportamento di molte sostanze cancerogene è difficilmente classificabile in modelli comportamentali netti, risulta complessa, all’interno del metodo, la valutazione della potenza mutagena, del meccanismo di azione e della suscettibilità individuale.